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La felicità
Patrizio Sanasi
I. Gallione, fratello mio, tutti aspiriamo alla felicità, ma, quanto a conoscerne la via, brancolia mo come nelle tenebre. è infatti così difficile raggiungerla che più ci affanniamo a cercarla, più ce ne allontaniamo, se prendiamo una strada sbagliata; e se questa, poi, conduce addirittura in una direzione contraria, la velocità con cui procediamo rende sempre più distante la nostra mèta. Perciò dobbiamo avere innanzitutto ben chiaro quel che vogliamo, dopodiché cercheremo la via per arrivarci, e lungo il viaggio stesso, se sarà quello giusto, dovremo misurare giorno per giorno la strada che ci lasciamo indietro e quanto si fa più vicino quel traguardo a cui il nostro impulso naturale ci porta. è certo che, sino a quando vagheremo a caso, non seguendo una guida ma ascoltando lo strepito delle voci discordi che ci spingono in direzioni diverse, la nostra vita, già breve di per sé, si consumerà in questo andare errabondo, anche se c'impegniamo giorno e notte, animati dalle migliori intenzioni. Fissiamo dunque bene la mèta e scrutiamo attentamente il modo per poterla raggiungere, con l'aiuto di un esperto che abbia già intrapreso ed esplorato il cammino che stiamo per affrontare, perché questo non ha nulla a che vedere con tutti gli altri, in cui sentieri precisi e le indicazioni forniteci dagli abitanti dei luoghi che attraversiamo c'impediscono di sbagliare: qui sono proprio le strade più battute e più frequentate a trarci in errore. Non c'è dunque nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare. Niente c'invischia di più in mali peggiori che l'adeguarci al costume del volgo, ritenendo ottimo ciò che approva la maggioranza, e il copiare l'esempio dei molti, vivendo non secondo ragione ma secondo la corrente. Da qui questo enorme affollarsi di persone che rovinano le une sulle altre. Come in una grande massa di uomini, in cui ciascuno, spingendo, cade e fa cadere (nessuno infatti cade senza tirarsi addosso almeno un altro, e i primi nuocciono a quelli che gli vanno dietro), così avviene in tutti i campi della vita: nessuno sbaglia a suo esclusivo uso e consumo, ma ciascuno di noi è artefice e responsabile anche degli errori degli altri. è pericoloso appoggiarsi a quelli che ci camminano davanti, ma noi, come preferiamo affidarci alle opinioni altrui piuttosto che giudicare con la nostra testa, così anche intorno alla vita non formuliamo mai dei giudizi personali, sicché l'errore, passando di mano in mano, c'incalza, ci travolge e ci butta giù, con nostra grande rovina. Sono gli esempi degli altri che ci guastano: solo se sapremo tenerci lontani dalla moltitudine potremo salvarci. Il volgo, invece, a dispetto della ragione, s'irrigidisce in una ostinata difesa dei propri errori, per cui accade come nei comizi, nei quali, appena il favore popolare, volubile com'è, ha mutato direzione, quelle stesse persone che li hanno votati si meravigliano che siano stati eletti «quei» pretori: così noi indifferentemente, approviamo o rigettiamo le medesime cose; questo è il risultato di ogni giudizio, quando lo regoliamo sull'opinione degli altri. II. Ma di fronte alla felicità non possiamo comportarci come nelle votazioni, accodandoci alla maggioranza, perché questa proprio per il fatto di essere la maggioranza è peggiore. I nostri rapporti con le vicende umane non sono infatti così buoni da poterci indurre a ritenere che il meglio stia dalla parte dei più, perché la folla testimonia esattamente il contrario, che cioè il peggio, per l'appunto, sta lì. Sforziamoci dunque di vedere e di seguire non i comportamenti più comuni ma cosa sia meglio fare, non ciò che è approvato dal volgo, pessimo interprete della verità, ma ciò che possa condurci alla conquista e al possesso di una durevole felicità. Per volgo intendo sia chi indossa il mantello sia chi porta la corona: io non bado all'apparenza delle vesti che coprono i corpi, non giudico un uomo con gli occhi, dei quali non mi fido, c'è in me una luce migliore e più sicura con cui distinguo il vero dal falso: è l'anima che deve trovare quel bene che solum è suo. Se mai avrà un momento di respiro per ritrarsi un poco in se stessa, oh come, allora, torcendosi con grande strazio di sé, confesserà la verità e sarà indotta ad esclamare: «Vorrei non avere mai fatto tutto quello che ho fatto sinora, e quando penso a ciò che ho detto provo invidia per i muti, ed ogni mio desiderio lo considero una maledizione dei miei nemici. Buon Dio, quanto mi sarebbe stato più sopportabile ciò che temevo, di fronte a ciò che ho tanto desiderato! Sono stata nemica di mo lti, e dopo l'odio che ho provato mi sono riappacificata con loro (se mai può esservi tregua fra malvagi), ma non sono ancora amica di me stessa. Mi sono adoperata in tutti i modi per tirarmi fuori dalla folla e farmi notare per qualche mia qualità, e che altro ho ottenuto se non espormi alle frecciate e ai morsi dei maligni? Li vedi questi che lodano l'eloquenza, inseguono la ricchezza, accarezzano i favori ed esaltano il potere? Tutti costoro o sono nemici o possono diventarlo, che è poi la stessa cosa. Tanto folta è la schiera degli adulatori quanto lo è quella degl'invidiosi. Perché non cercare un bene da potersi intimamente sentire, piuttosto che uno da mettere in vetrina? Tutte queste cose che ci stanno intorno, che ci avvincono e che ci mostriamo a dito gli uni agli altri con ammirato stupore, brillano esternamente, ma dentro non sono che miserie». III. Cerchiamo dunque un bene non apparente ma vero, che sia costante e bello nella sua intima essenza: è questo che dobbiamo sprigionare e portare alla luce. Non è lontano, lo troveremo, ci basta solo sapere dove tendere la mano. E invece continuiamo a brancolare nel buio, senz'accorgerci di ciò che pur ci sta vicino e inciampando proprio in quello che desideriamo. Ma per non trascinarti in un tortuoso giro di parole, tralascerò le opinioni degli altri (che sarebbe troppo lungo elencare e discutere) e ti esporrò la nostra: dico «nostra» non perché io mi senta legato ad alcuno dei grandi stoici, giacché anch'io ho diritto ad un mio parere personale, ma perché di loro uno lo seguirò, un altro lo inviterò a puntualizzare il suo pensiero, e alla fine, magari, interpellato, non respingerò nessuna delle idee di coloro che hanno parlato prima di me, e dirò: «In più io la penso così». Intanto, come tutti gli stoici, io seguo la natura: è segno di saggezza non allontanarsene ma conformarsi alle sue leggi ed al suo esempio. Felice è dunque quella vita che si accorda con la sua propria natura, il che è possibile solo se la mente, in primo luogo, è sana, ma sana sempre, in ogni momento, poi se è forte ed energica, decisamente paziente, capace di affrontare qualsiasi situazione, interessata al corpo e a quanto lo riguarda ma senza ansie e preoccupazioni, amante di tutto ciò che adorna la vita ma con distacco, disposta a serv irsi dei doni della fortuna ma senza farsene schiava. Comprendi bene - anche se non aggiungo altro - che una volta eliminate tutte le cause di irritazione e di paura, ne conseguono una calma interiore ed una libertà ininterrotte: infatti ai piaceri e agli allettamenti, che sono fragili e di breve durata, e che ci nuocciono col loro solo profumo, subentra una gioia incommensurabile, salda e costante; e poi la pace e l'armonia dell'anima, l'elevatezza e la bontà: la cattiveria è sempre frutto di una malattia. IV. Della felicità si possono dare anche altre definizioni, giacché uno stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Come un esercito che si schieri ora in larghe file, ora in uno spazio ristretto, oppure a semicerchio o frontalmente, ma comunque si disponga non cambiano la sua forza e la sua volontà di combattere per la medesima causa, così la definizione della felicità può essere ora ampia e particolareggiata, ora breve e concisa. Sicché possiamo dire, per esempio, che essa «consiste nel disprezzare i doni della fortuna e nel compiacersi della virtù», o che «è una forza invincibile dell'animo, esperta della vita, serena nell'agire, piena di umanità e di premure per gli altri», senza con ciò mutarne il concetto o la sostanza. E possiamo ancora d ire che felice è colui per il quale non esistono il bene ed il male ma soltanto uomini buoni e uomini cattivi, che segue solo ciò che è onesto e si compiace unicamente della virtù, che non si accende né si avvilisce nelle alterne vicende della sorte, che n on conosce bene maggiore di quello che può procurarsi da solo, e per il quale il vero piacere è il disprezzo del piacere stesso. Se vogliamo allargare il discorso, possiamo usare altre forme, sempre nuove e diverse, ma la sostanza non cambierà. Nessuno, per esempio, c'impedisce di dire che la felicità è un dono proprio di un animo libero, elevato, intrepido e costante, lontano da timori e desideri, per il quale l'unico bene è l'onestà e l'unico male la disonestà, e tutto il resto non è altro che uno spregevole insieme di cose che non tolgono e non aggiungono nulla alla felicità, la quale né diminuisce né si accresce col loro andare e venire. Un simile presupposto comporterà necessariamente, anche se noi non lo volessimo, una serenità ininterrotta, una gioia che sgorga dal profondo, intensa e duratura, perché gode di un bene che è suo e non desidera se non ciò che strettamente le appartiene. Per quale motivo non dovremmo credere che un tale stato possa compensare perfettamente i moti meschini, futili e passeggeri del nostro misero corpo? Quando uno è schiavo del piacere lo è anche del dolore, e non c'è schiavitù più dannosa e più trista che nel soggiacere ora all'uno ora all'altro di questi due tirannici e capricciosi padroni. Bisogna quindi liberarsene, e l'unica via sta nell'indifferenza di fronte alle mutevoli vicende della sorte: allora nascerà quell'inestimabile bene, la serenità di una mente sicura e decisa, l'elevatezza morale, e, una volta eliminato ogni timore, la gioia immensa e senza fine, proveniente dalla conoscenza del vero, l'affabilità e l'espansività; e tutti questi beni ci diletteranno non in quanto tali ma in quanto doti o qualità proprie dell'animo. V. Visto che tessendo mi si è allargata la tela, aggiungerò che si può dire felice anche chi, s ervendosi della ragione, si è liberato dai desideri e dai timori. Certo, pure i sassi e gli animali sono privi di tristezze e di paure, ma non per questo possiamo chiamarli felici, perché non hanno il senso della felicità. Lo stesso si può dire di quegli uomini che per innata ottusità mentale ed ignoranza di sé annoveriamo fra i bruti e gli esseri inanimati: non c'è infatti alcuna differenza fra le due categorie, perché negli uni manca la ragione, negli altri c'è, ma è depravata, indirizzata unicamente a loro danno e perversione. Non si può definire felice chi si trova fuori dalla verità. La felicità, insomma, si fonda sulla capacità di formulare un giudizio retto, sicuro ed immutabile. Soltanto allora, infatti, la mente è pura e libera da ogni male, perché è riuscita a sottrarsi non solo alle lacerazioni ma anche alle minime scalfitture, e resterà sempre nella condizione che si è conquistata, anche se dovesse piombarle addosso tutta la rabbia dell'avversa fortuna. Quanto al piacere - ci avvolga pure da tutti i lati e si diffonda per ogni vena, ci titilli l'animo con le sue continue ed insistenti lusinghe per turbarci, completamente o in parte - quale uomo, a cui sia rimasto almeno un briciolo di umanità, vorrà lasciarsi solleticare giorno e notte e abbandonare l'animo, per dedicarsi unicamente al corpo? VI. Ma anche l'anima - si obietterà - ha la sua parte nei piaceri. E se li prenda, si segga pure a giudice del lusso e di ogni genere di godimenti, si riempia sino alla sazietà di ciò che suole dilettare i sensi, poi si volga al passato e nel ricordo dei piaceri già consumati s'inebri di quel che ha provato e si protenda verso ciò che proverà, programmi le sue attese, e mentre il corpo se ne sta disteso, appesantito dal lauto pasto dell'oggi, spinga avanti il pensiero ai godimenti del domani; ebbene, tutto questo mi sembrerà ancora più meschino, poiché scegliere il male al posto del bene è pura e semplice follia. Nessuno può essere felice se non è sano di mente, e non è sano di mente colui che invece del meglio cerca ciò che gli nuocerà. In definitiva, è felice colui che giudica rettamente, è felice chi si accontenta della sua condizione, quale che essa sia, e gode di quello che ha, è felice colui che imposta e regola su basi razionali la condotta di tutta la sua vita. VII. Anche quelli che fanno consistere la felicità nei godimenti sopra accennati riconoscono di collocarla in un posto quanto mai vergognoso, per cui cercano di conciliare le cose, dicendo che il piacere va a braccetto con la virtù e che non si può v ivere una vita onesta che non sia contemporaneamente amabile, e viceversa. Io non vedo come si possano accoppiare delle cose tanto diverse fra loro. Ditemi, per favore, per quale motivo non si può separare il piacere dalla virtù? Se è in questa che si trova l'origine di tutti i beni, com'è possibile che da quelle stesse radici provengano anche i piaceri, quei piaceri che voi, spinti dal desiderio, cercate con tanta insistenza? Se la virtù e il piacere non fossero distinti, come faremmo a vedere che alcune cose sono piacevoli ma non oneste, altre invece onestissime ma dure e conseguibili solo attraverso la sofferenza? Per non dire che il piacere può accompagnarsi anche alla più ignobile condotta, mentre la virtù non ammette una vita disonesta, e che alcuni sono infelici non perché senza piaceri ma proprio per via dei piaceri, il che non accadrebbe se il piacere fosse mescolato alla virtù, la quale, quando quello non c'è, non ne sente per questo alcun bisogno. Perché, dunque, volete mettere insieme cose diverse o addirittura contrarie fra loro? La virtù è un che di alto e profondo, un che di eccelso e regale, d'invincibile e d'instancabile, il piacere invece è meschino, servile, debole, caduco, staziona e alloggia nei bordelli e nelle osterie. La virtù la incontrerai nell'interno di un tempio, nel foro, in senato, a guardia delle mura, ricoperta di polvere, accaldata o con i calli alle mani, il piacere lo vedrai perlopiù nascosto o in cerca del buio, presso i bagni e le terme, o nei luoghi che temono la polizia, lo vedrai fiacco, snervato, imbevuto di vino e di unguenti, pallido o imbellettato, imbalsamato come un cadavere. Il sommo bene è immortale, non sfugge, non dà sazietà né rimorsi, giacché una mente retta non muta, non odia se stessa e non cede di un passo da quella sua condizione, che è la migliore; il piacere, invece, finisce nel momento stesso in cui giunge al suo culmine, ha uno spazio ristretto e perciò ben presto ci sazia e ci dà nausea, e già nel suo primo slancio s'infiacchisce. Non c'è nulla di stabile e di certo in ciò che per sua natura è soggetto a movimento, né può avere alcuna consistenza ciò che viene e se ne va in un baleno, destinato a perire nel medesimo istante in cui si consuma; tende infatti colà dov'è condannato a morire, e nel suo stess o principio ha già presente la fine. VIII. Quanto poi al fatto che il piacere si trova sia nei buoni che nei cattivi e che gli scellerati godono della propria infamia non meno di quanto gli onesti si compiacciono del loro retto operare, dirò che - come gli antichi ci hanno insegnato - dobbiamo seguire la vita migliore, non la più dilettevole, e che il piacere non dev'essere guida ma soltanto compagno del buono e del giusto volere. Il nostro maestro è la natura, è lei che la ragione guarda e consulta. Perciò vivere felici e vivere secondo natura sono la medesima cosa, e dirò subito perché: se conserveremo le qualità fisiche e le inclinazioni naturali con cura e con serenità, nella consapevolezza che sono beni destinati a perire, se non ne subiremo la schiavitù e non ci lasceremo possedere dal mondo esterno, se le occasionali soddisfazioni del nostro corpo conteranno per noi come le truppe ausiliarie e i soldati armati alla leggera (che hanno il compito di servire, non di comandare), solo così tutto questo potrà essere utile alla nostra mente. Non dobbiamo lasciarci corrompere né dominare dal mondo che ci circonda, dobbiamo fare assegnazione solo su noi stessi, affidarci alle nostre personali capacità, risoluti sia nella fortuna che nella malasorte; dobbiamo, insomma, essere noi gli artefici della nostra vita e della nostra condotta. E però quella fede deve accompagnarsi alla scienza, ad un sapere saldo e costante, sì che quando abbiamo preso delle decisioni queste rimangano stabili e certe, senza riserve o cancellature di sorta. Va da sé - né c'è bisogno ch'io mi dilunghi in questo discorso - che se ci atterremo a tali princìpi saremo equilibrati e ordinati, generosi ed affabili in ogni nostra azione. La ragione parta pure dai sensi nel fare le sue ricerche (i sensi, infatti, hanno il compito di stimolarla, né da altro essa può muovere nel suo slancio verso la verità), ma, una volta preso l'avvio, rientri subito in sé, come del resto fanno l'universo intero, che tutto abbraccia, e Dio stesso che lo governa, i quali, pur tendendo verso l'esterno, tornano poi, da ogni parte, nella loro intima essenza. Questo deve fare la nostra mente. Dopo che dietro la spinta dei sensi e per loro mezzo si sia volta alle cose che la circondano, si mantenga padrona di queste e di se s tessa. Ne nasceranno una forza sola ed un potere concorde, e quella razionalità sicura che non conosce contrasti o tentennamenti nelle sue opinioni, nelle sue conoscenze e nelle sue convinzioni. Quando la mente si sia così organizzata, ordinata e armonizzata, diciamo, in tutte le sue parti, il nostro animo avrà già raggiunto la felicità, perché in sé non avrà più nulla di riprovevole, nulla d'incerto, nulla in cui possa urtare o scivolare; agirà sempre di sua libera iniziativa e niente potrà accadergli che da lui non sia già stato previsto e calcolato, ma tutto ciò che farà avrà giusto e felice compimento, perché l'agire gli riuscirà facile, pronto e senza alcuna esitazione: la pigrizia, infatti, e l'indecisione rivelano l'esistenza di contrasti e di incoerenze, che un simile animo non ha. Perciò possiamo dichiarare apertamente che la felicità è l'armonia interiore, giacché le virtù si trovano nell'accordo e nell'unità: dove questi mancano non ci sono che vizi. IX. Ma anche tu - mi dirai - coltivi la virtù unicamente perché speri di ricavarne un piacere. Ebbene, tanto per cominciare, il fatto che la virtù procuri un piacere non significa che la si cerchi per questo: il piacere è solo un'aggiunta, non la mèta del nostro sforzo: lo conseguiremo, ma mirando ad un altro fine, che è appunto la virtù. Come in un campo di grano spuntano qua e là dei fiorellini - ma non a questa erbetta, benché gradita agli occhi, mirava tanta fatica (altro era lo scopo del seminatore, i fiori sono un di più) - allo stesso modo il piacere non è né il premio né la causa della virtù, ma un elemento accessorio: il virtuoso non ne gode perché gli procura diletto, ma, dal momento che gli procura diletto, se ne compiace. La felicità, ancora, sta nella convinzione stessa di essere felici e nell'atteggiamento di una mente perfetta, che, giunta al termine del suo viaggio e postasi intorno i suoi limiti, ha pienamente realizzato il suo massimo bene e non chiede più altro, perché oltre al tutto non c'è nulla, non c'è nulla al di là della fine. Commetti dunque un errore quando mi chiedi per quale motivo io aspiri alla virtù, perché ti riferisci a qualcosa che dovrebbe stare al di sopra del massimo a cui si possa aspirare. Vuoi sapere che chiedo alla virtù? La virtù, nient'altro che la virtù. Essa infatti non può dare nulla di meglio, perché ha in se stessa il suo premio. Ti sembra poco? Se ti dico che «la felicità è fermezza inflessibile dell'anima, preveggenza, sublimità, ragionevolezza, libertà, bellezza ed armonia», chiedi ancora qualcosa di più grande a cui ascrivere tutti questi beni? Perché mi tiri in ballo il piacere? Io cerco il bene dell'uomo, non già quello del ventre, che - se la metti su questo piano - nelle bestie è ancora più capiente. X. Mi obietterai che io traviso il senso delle tue parole, giacché tu pure sostieni che nessuno può essere felice se non è insieme onesto, e questo - dici - non potrà mai capitare alle bestie o a coloro che fanno consistere la propria felicità nel mangiare. E dichiari apertamente e pubblicamente che la felicità di cui parli tu non può sussistere se non è unita alla virtù. D'accordo. E chi non sa che sono i più sciocchi a rimpinzarsi di questi vostri piaceri, che la malvagità trabocca di godimenti e che persino l'animo, spesso, suggerisce molti e depravati tipi di piaceri? In primo luogo l'arroganza, l'eccessiva stima di se stessi, la superbia, che ci gonfia e ci fa sentire al di sopra di tutti gli altri, l'amore cieco e smodato dei propri averi, i godimenti sfrenati e l'esultanza per i più piccoli e puerili mo tivi, e ancora la mordacità e l'insolenza che si compiace di offendere, l'accidia e la dissoluzione dì un animo fiacco che dorme su se stesso. La virtù fa piazza pulita di tutto questo, tira le orecchie, valuta i piaceri prima di accoglierli e quei pochi che approva non li tiene in gran conto: li accetta, ma con cautela, e non gode perché ne fruisce, ma per l'uso moderato che ne fa. Il fatto che la temperanza sia una diminuzione non intacca la felicità. Tu apri le braccia al piacere, io lo tengo a freno, tu del piacere godi, io me ne servo, tu lo consideri il più grande dei beni, io non lo stimo neppure un bene, tu fai tutto per il piacere, io, per lui, non faccio niente di niente. XI. Con ciò mi riferisco a quel tipo di saggio che tu consideri unico depositario del piacere. Ma per me non è saggio chi si trova sotto il potere di qualcosa, e tanto meno del piacere, perché se ne è dominato come può resistere alle fatiche, ai pericoli, alla povertà e a tutte le minacce che si affollano e strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare costui la vista della morte, i dolori, la furia fragorosa degli elementi, la nutrita schiera di feroci nemici, se si lascia vincere da un avversario così debole? Tu mi dirai: «Farà tutte le cose che il piacere gli suggerirà». Bravo! E non vedi quante sono? «Ma non potrà consigliargli niente di disonesto», riibatterai, «perché è unito alla virtù». Ed io, a mia volta, ti riimbeccherò «Ma che razza di felicità è quella che, per essere tale, ha bisogno di un custode? E la virtù come potrà governare un piacere a cui va dietro, quando il seguire è proprio di chi ubbidisce, il guidare, invece, di chi comanda? Tu, così, m'inverti le cose!» Voi attribuite alla virtù un nobile compito davvero: quello di assaggiatrice dei piaceri! Vedremo dopo se possa esserci fin qui un briciolo di virtù in coloro che l'offendono in questo modo: non si può infatti parlare di virtù quando si è lontani anche solo di un passo da quella condizione in cui essa propriamente consiste. Per ora, attenendoci all'argomento di cui abbiamo preso a trattare, ti mostrerò che ci sono molte persone assediate dai piaceri, alle quali la sorte ha profuso tutti i suoi doni, ma che tu riconoscerai, necessariamente, infelici. Guarda Nomentano ed Apicio, per esempio, che si cucinano i beni (così essi li chiamano) della terra e del mare, che sanno riconoscere, solo al vederli imbanditi sulla tavola, gli animali di ogni paese; guardali, mentre già si gustano con gli occhi il ghiotto cibo dall'alto del loro trono tappezzato di rose, riempiendosi l'udito di carezzevoli suoni, la vista di spettacoli, il palato dei più diversi sapori; il loro corpo è tutto acceso ed eccitato da morbide e lascive seduzioni, e affinché le narici, nel frattempo, non restino inoperose, il luogo stesso in cui si consuma il sacro rito della lussuria è impregnato dei più diversi profumi. Ebbene, potrai dire che costoro sono immersi nei piaceri, ma non che sono felici: essi infatti non godono di un bene. XII. Obietterai che non sono infelici per questo, ma perché insorgono molti fattori a turbare il loro animo, e opinioni diverse e contrastanti gli rendono inquieta la mente. Ammetto che sia così, ma nondimeno, stolti ed incostanti, e sempre sotto i colpi del rimorso, provano grandi piaceri, per cui si deve riconoscere che sono tanto lontani dalla sofferenza quanto dalla buona razionalità, e, come accade alla maggior parte di loro, dominati da un'allegra follia che sfogano mediante un riso sfrenato. I piaceri del saggio, al contrario, sono modesti e pacati, quasi languidi, trattenuti e percettibili appena, inquantoché non sono stati invitati ed essendosi presentati di loro spontanea iniziativa non vengono accolti con tutti gli onori, né con gioia ed entusiasmo, da parte di colui che li riceve: il saggio, infatti, li mescola e li frappone alla vita, come il gioco e lo scherzo s'intercalano fra le severe occupazioni. XIII. Finiamola dunque di mettere insieme cose inconciliabili fra loro, mescolando il piacere con la virtù: è un vezzo, questo, volto a giustificare e ad elogiare i vizi peggiori. L'uomo che si abbandona alle gozzoviglie, che rutta continuamente ed è sempre ubriaco, visto che ne gode, s'illude che il piacere conviva con la virtù, anche perché sente dire così, per cui chiama sapienza i propri vizi e ostenta sfacciatamente ciò che invece dovrebbe nascondere. Quindi non è Epicuro che spinge questi individui alla lussuria, sono loro che, essendo dediti al vizio, celano la propria libidine nel grembo della filosofia, rifugiandosi in quella dottrina in cui si fa l'elogio del piacere. E però non si preoccupano di vedere quanto sia sobrio e sereno il piacere di Epicuro (questa, almeno, è la mia intepretazione), ma corrono diritti alla parola, in cui credono di trovare una giustificazione ed una maschera alle loro sfrenate passioni. E così perdono l'unico bene che gli restava, in mezzo a tutti quei mali, la vergogna del peccato: lodano infatti ciò di cui prima arrossivano e si vantano dei propri vizi. Per questo i giovani non hanno più la possibilità di riemergere da quel fango, quando ad un così turpe e pigro godimento si è conferito un attestato di onorabilità. Sono evidenti a questo punto i rischi che si annidano in un elogio avventato e superficiale del piacere, perché i precetti nobili e profondi contenuti in tale dottrina rimangono nascosti, mentre affiorano solo i sozzi germi della corruzione. Io sono fermamente convinto (e lo dico anche a dispetto dei miei colleghi della scuola stoica) che i precetti di Epicuro sono retti e santi, e se li guardiamo attentamente persino severi: il piacere infatti, per lui, si riduce a ben piccola e magra cosa ed è soggetto a quella stessa legge che noi stoici applichiamo alla virtù: esso deve, cioè, obbedire alla natura. Senonché ciò che basta alla natura non è sufficiente per il piacere. E allora? Chi chiama felicità l'ozio assoluto e l'alterno appagamento della gola e dei sensi cerca un buon avvocato per un'azione malvagia e, spinto su quella strada da una parola ingannevole, segue non il piacere di cui si parla in quella dottrina ma quello che ha scelto lui e che si porta appresso, e scambiati i suoi vizi per precetti filosofici vi si abbandona con indulgenza, sfacciatamente e senza più nascondersi nemmeno, anzi, finisce col praticare la lussuria addirittura in pubblico. Io perc iò non sostengo, come la maggior parte dei miei colleghi stoici, che la scuola di Epicuro è maestra d'infamie, dico che è diffamata, che ha una cattiva reputazione, e ingiustamente. Chi può sapere, del resto, come stanno esattamente le cose, se non ha ben studiato e approfondito questa dottrina? La sua facciata può dare adito a maldicenze e far nascere cattivi propositi. Come se tu, uomo forte e vigoroso, ti presentassi in pubblico ricoperto di un abito femminile: tu ben conosci la tua onorabilità, la tua virilità è fuori discussione, il tuo corpo non indulge ad alcun atto di libidine, però. hai in mano il tamburello! Si scelga dunque per questa dottrina una definizione decorosa ed un'insegna che già di per se stessa sia di adeguato incitamento all'animo: quella attuale non fa che favorire i vizi. Chi si mette sulla via della virtù dà prova di un'indole nobile, chi invece va dietro al piacere è uno privo di nervi, un debosciato, un deviato, pronto a precipitare nei vizi più abominevoli, a meno che non abbia qualcuno che gli mostri la differenza fra i vari piaceri, sì ch'egli possa comprendere quali di essi rientrano nei limiti del desiderio naturale e quali invece corrono all'impazzata e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagarli. XIV. Sia dunque la virtù la nostra guida: seguendo lei ogni passo sarà sicuro. Il piacere, inoltre, quando è eccessivo nuoce, nella virtù non c'è da temere che vi sia nulla di troppo, perché è intrinseca in lei la moderazione. Tutto ciò che risente del proprio peso non è un bene. A chi ha avuto in sorte una natura razionale si può forse proporre qualcosa di meglio della ragione? Ora, se questa unione ci piace, se ci è gradito avviarci lungo il sentiero della felicità in tale compagnia, la virtù faccia da battistrada e il piacere l'accompagni, limitandosi a corteggiarla, come l'ombra che procede accanto al corpo ma senza confondersi con lui. Asservire al piacere la virtù, che è il più nobile dei beni, è proprio di chi non sa concepire nulla di grande. La virtù vada dunque per prima e sia lei a portare le insegne; il piacere lo avremo egualmente ma come suoi padroni e moderatori; ci pregherà di fare qualche strappo, qualche eccezione, alla nostra temperanza, ma non potrà mai piegarci a sé. Invece quelli che hanno dato la prerogativa del comando al piacere restano privi dell'uno e dell'altra, giacché perdono la virtù e, quanto al piacere, non loro godono di lui ma lui gode di loro; e se è scarso si tormentano, se è eccessivo ne sono soffocati, infelici se li abbandona, più infelici se li travolge: come i naviganti in balia delle Sirti, che ora restano bloccati in una secca, ora vengono sballottati dai ribollenti flutti. Questi sono i risultati di un'intemperanza smodata e di un amore cieco per l'oggetto dei nostri desideri. è rischioso, infatti, giungere in porto quando si va dietro al male quasiché fosse un bene. Come andiamo a caccia di bestie feroci tra fatiche e pericoli e una volta che le abbiamo catturate e le teniamo con noi stiamo sempre all'erta, visto che sp esso sbranano i proprietari, allo stesso modo chi si procaccia grandi piaceri incorre in gravi disgrazie, e quelli, che prima stavano al guinzaglio, diventano i suoi padroni; e quanto più essi sono forti e numerosi, tanto più piccolo e schiavo di più padroni si fa colui, che il volgo chiama felice. E, proseguendo con questa immagine, come il cacciatore, che dopo averne scovato i nascondigli, prende col laccio le selvagge fiere e circonda di cani i grandi balzi, e per seguirne le tracce tralascia cose di maggiore importanza e rinuncia a molti dei suoi impegni, così chi corre dietro al piacere dimentica tutto il resto e in primo luogo trascura la propria libertà, mettendola al servizio del ventre; si vende, insomma, ai piaceri, invece di comprarli. XV. Ma cosa impedisce - si dirà - che virtù e piacere si fondano insieme, dando luogo ad una felicità che sia contemporaneamente onesta e piena di godimenti? Il fatto che l'onestà è costituita esclusivamente da tanti pezzetti di onestà, e che la felicità non sarebbe più autentica se dovesse accogliere in sé qualcosa che differisce da quella che è la migliore, cioè l'onestà. Nemmeno la gioia che nasce dal possesso della virtù, per quanto buona in se stessa, fa parte del bene assoluto, e così pure l'allegria e la tranquillità, anche se provengono dalle più nobili cause: sono infatti dei beni conseguenti; dei compagni, che non rappresentano il completamento della felicità. Chi invece mette insieme virtù e piacere - e neppure in eguale misura - con la fragilità di un bene spegne tutto il vigore che c'è nell'altro e finisce col mandare sotto il giogo la libertà, che si mantiene intatta solo se non le si presentino altri beni spacciati come più preziosi. Si comincia, così, ad avere bisogno della fortuna (e questa è la peggiore delle schiavitù), con la conseguenza che si vive una vita piena di ansie, di sospetti, di trepidazioni, timorosa di ogni evento, come attaccata ad un filo. In tal modo non si dà alla virtù un fondamento solido e stabile, ma la si colloca sopra una base malferma; e che c'è di più instabile ed insicuro dell'affidarsi al caso, o delle continue variazioni del nostro corpo fisico e di tutto ciò che lo riguarda? Come può obbedire a Dio e accogliere con animo sereno qualunque avvenimento, senza lagnarsi della sorte, perché sa interpretare sempre benevolmente i propri casi, un uomo che si scuote ai più piccoli stimoli del piacere e del dolore? Non può nemmeno difendere o liberare la patria, o sostenere gli amici, se pensa solo al piacere. La felicità salga sopra una cima, da cui nessuna forza possa tirarla giù, a cui non abbiano accesso né dolori, né speranze, né timori, né alcun'altra cosa che possa intaccare la sua prerogativa: soltanto la virtù può arrivare a quell'altezza, giacché solo il suo passo vince l'ardua salita. E piazzatasi lì, saldamente, sopporterà qualsiasi evento non solo con pazienza, ma di buon grado, ben sapendo che le avversità della vita fanno parte della legge di natura; reggerà alle ferite come un valoroso soldato che conti le sue cicatrici e trafitto dai dardi, anche in punto di morte resta fedele al suo capo, per il quale è caduto; e avrà sempre nel cuore l'antica massima stoica: «Conformati a Dio». Chi si lamenta, piange e si dispera, è costretto a servire come un forzato, ad obbedire contro il proprio volere. Ma non è una follia farsi trascinare a forza, invece di seguire con remissività? Così pure è stoltezza e ignoranza della nostra umana condizione dolersi perché qualcosa ci manca o ci riesce sgradito, meravigliarsi e sdegnarsi di dover sopportare ciò che capita tanto ai buoni quanto ai cattivi, come le malattie, i lutti e tutte le altre disgrazie della vita. Accettiamo quindi con animo forte tutto ciò che c'impone la legge stessa dell'universo: a questo impegno siamo chiamati, come da un giuramento: ad accettare il nostro stato mortale e a non lasciarci turbare da ciò che non ci è dato di evitare. Il nostro è un mondo di schiavitù: il solo modo per uscirne è l'ubbidire a Dio: è questa l'unica, possibile libertà. XVI. La vera felicità, dunque, risiede nella virtù, la quale ci consiglia di giudicare come bene solo ciò che deriva da lei e come male ciò che proviene invece dal suo contrario, la malvagità. Poi, di essere imperturbabili, sia di fronte al male che di fronte al bene, in modo da riprodurre in noi, per quanto è possibile, Dio. Quale premio per questa impresa la virtù ci promette privilegi immensi, simili a quelli divini: nessuna costrizione, nessun bisogno, libertà totale, assoluta, sicurezza, inviolabilità; non tenteremo nulla che non sia realizzabile, niente ci sarà impedito, né potrà accaderci alcunché che non sia conforme al nostro pensiero, niente di avverso, niente d'imprevisto o contro la nostra volontà. «Cosa?», mi dirai. «La virtù basta per vivere felici?» E come potrebbe non bastare, quand'è perfetta e divina? Anzi, è più che sufficiente. Che può mancare, infatti, a chi si trova fuori da ogni desiderio? Non può venirgli nulla dall'esterno, quando ha già tutto dentro di sé. «Ma chi procede verso la virtù», replicherai, «anche se ha fatto molta strada, dev'essere un po' aiutato dalla fortuna, fintantoché si dibatte tra le vicende umane, sino a che non sciolga quel nodo e non infranga ogni legame mortale. Che differenza c'è, allora, fra costui e gli altri?» Che questi sono legati solidamente, strettamente, e anche con molti nodi, a quello, invece, che si è avviato verso una dimensione superiore, spingendosi più in alto, la catena s'è allentata: egli non è ancora libero, ma è come se lo fosse. XVII. A questo punto qualcuno di quelli che abbaiano contro la filosofia verrà, come al solito, a dirmi: «Ma tu, perché parli da persona virtuosa, quando la tua vita non lo è? Perché abbassi la voce di fronte ai superiori, consideri il denaro una necessità, ti turbi se qualcosa ti va storto, p iangi per la morte di tua moglie o di un amico, ti preoccupi del tuo buon nome e ti senti toccato dalle parole maligne? E perché il tuo podere produce più di quanto non richiedano i tuoi bisogni naturali? Perché i tuoi pasti non sono conformi ai tuoi insegnamenti, hai dei mobili raffinati e bevi vino più vecchio di te? Perché hai piazzato in casa un'uccelliera, piantato alberi che non dànno altro che ombra, tua moglie porta appesa alle orecchie tutta l'oreficeria della tua ricca casa e i tuoi schiavetti indossano vesti preziose? Perché da te servire a tavola è un'arte, sulla mensa l'argenteria non viene disposta a caso o a piacere ma sistemata con estrema perizia, ed hai persino uno scalco, preposto al taglio delle vivande?» E andando avanti di questo passo: «Perché hai delle proprietà pure al di là del mare, e così numerose che non sai nemmeno quante sono? è un'indecenza! O sei trascurato a tal punto da non conoscere neppure quei pochi schiavi che hai, o, vivendo in un lusso sfrenato, ne possiedi più di quanti la tua memoria sia capace di contenerne». Ebbene, io stesso, fra poco, rincarerò la dose delle accuse mossemi da quei signori, rimproverandomi più difetti di quanti essi non pensino; per ora mi limiterò a rispondere: «Non sono saggio; e, per dare ancora più esca alla vostra malignità, aggiungo che non lo sarò mai. Non pretendete, dunque, che io sia uguale ai migliori, chiedetemi solo di essere migliore dei cattivi: è già un passo avanti se riesco a togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e a biasimare i miei errori. Non sono guarito, e non guarirò: per la mia gotta più che dei toccasana preparo dei calmanti, accontentandomi di ridurre il numero degli attacchi e l'intensità del dolore, ma di fronte a voi, se misuro i miei deboli piedi con i vostri, io sono un corridore». E dico questo non per me, giacché io sono in un oceano di vizi, ma per chi ha già fatto qualcosa sulla via della virtù. XVIII. «Comunque», mi si replicherà, «resta il fatto che tu parli in un modo e vivi in un altro». Ebbene, questo rimprovero, o teste maligne e inimicissime delle più degne persone, è stato rivolto anche a Platone, ad Epicuro e a Zenone: ma essi descrivevano non già il modo in cui vivevano bensì i precetti secondo i quali avrebbero dovuto e voluto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se grido contro i vizi mi riferisco soprattutto ai miei: quando sarò riuscito a liberarmene, vivrò come si conviene ai miei insegnamenti, dai quali non potrà allontanarmi tutta la velenosa malignità che mi gettate addosso; e neppure quella che spargete sugli altri, e con la quale uccidete voi stessi, m'impedirà di continuare a tessere l'elogio di una vita, che non è quella ch'io conduco, lo so, ma che ritengo che si debba vivere; non m'impedirà di amare la virtù e di seguirla anche strisciando e a grande distanza. Dovrei forse sperare che risparmi qualcosa questa malevolenza che non ha rispettato nemmeno la sacralità di Rutilio e di Catone? O preoccuparmi di sembrare troppo ricco a della gentucola per la quale persino il cinico Demetrio non è abbastanza povero? Quest'uomo rigidissimo, perennemente in lotta contro tutti i bisogni naturali, ancora più indigente degli altri cinici, perché mentre costoro si negano il possesso di qualsiasi bene materiale, egli s'è imposto anche il divieto di chiedere. E poi dicono che non è abbastanza povero! Eppure è chiaro: egli non ha professato la teoria della virtù, ma ha praticato la povertà. XIX. E Diodoro? Il filosofo epicureo che pochi giorni fa ha troncato, di sua mano, il filo della propria esistenza? Dicono, alcuni, che non ha agito secondo i precetti del maestro, perché si è tagliato la gola; altri vogliono vedere nel suo suicidio un segno di pazzia, altri ancora un atto di temerarietà; ma lui, intanto, felice e pieno di una coscienza vigorosa e pura, ha dato una testimonianza, e non soltanto a se stesso, nello staccarsi da questo mondo; ha lodato la calma e la serenità di una vita vissuta come in un porto e all'ancora, dicendo cose che voi avete ascoltato a denti stretti, quasiché vi avesse invitato a fare altrettanto: Sono vissuto: il ciclo che la sorte m'ha dato è compiuto. Voi disputate sulla vita dell'uno e sulla morte dell'altro e abbaiate di fronte al nome di uomini divenuti insigni per qualche lodevole merito, come fanno i cagnolini all'avvicinarsi di persone sconosciute. La verità è che a voi fa comodo che nessuno risulti virtuoso, perché la virtù degli altri suona come un rimprovero alle vostre malefatte. Invidiosi quali siete, confrontate lo splendore morale di quelle vite con la vostra sozza materialità, e non vedete il danno che fate a voi stessi con una simile presunzione, perché se gli uomini virtuosi sono degli avari, dei dissoluti e degli ambiziosi, cosa sarete voi, che avete in odio persino il nome di virtù? Proclamate che nessuno, di quelli che voi accusate, mette in pratica ciò che dice, né vive secondo il modello che va predicando: ma c'è già da meravigliarsi che vi siano al mondo delle persone così coraggiose, che parlano di cose tanto straordinarie, tali da sottrarsi a tutte le tempeste della vita. Anche se non riescono a staccarsi dalle loro croci, quelle croci in cui ciascuno conficca di propria mano i suoi chiodi, perlomeno, una volta giunti alla morte, pendono ognuno da un solo palo, mentre voi, che badate soltanto a voi stessi, siete lacerati da tante croci quante sono le vostre passioni. Siete dei maldicenti, bravi solo ad offendere gli altri. Gente come voi potrei anche crederla priva di questo vezzo, se non ce ne fossero alcuni che persino mentre pendono dalla forca lanciano sputi sugli spettatori. XX. I filosofi, dunque, predicano bene e razzolano male: così cianciate voi. E invece fanno già molto, proprio perché certe cose perlomeno le dicono, e concepiscono pensieri di virtù e di onestà; se poi agissero in piena conformità dei loro insegnamenti quale uomo potrebbe essere più felice di loro? Intanto, non c'è motivo di disprezzare le buone parole e gli animi ricchi di pensieri virtuosi, e poi il coltivare salutari inclinazioni è di per sé lodevole, indipendentemente dai risultati che si possono conseguire. Forse che ci meravigliamo se non giunge sino alla vetta chi s'è incamminato lungo una dura salita? Se siamo uomini non possiamo non ammirare coloro che han posto mano a degne imprese, anche se poi cadono senza toccare la mèta. è di un animo nobile tentare, guardando non alle sue forze personali ma ai poteri della propria natura, mirare in alto e concepire azioni superiori anche a quelle che possono compiere delle persone eccezionalmente dotate. Ci sono uomini che si sono p roposti questi obiettivi: «Guarderò la morte con lo stesso volto con cui ne sento parlare. Mi assoggetterò a qualunque fatica, sostenendo il corpo con l'animo. Disprezzerò le ricchezze, ch'io le possieda o no, né mi dorrò per il fatto che le abbiano altri o monterò in suberbia se mai mi splendessero intorno. Non darò peso alla fortuna, sia che m'assista, sia che m'abbandoni. Guarderò tute le terre del mondo come se fossero mie e le mie come se appartenessero all'intera umanità. Vivrò con la convinzione di essere nato per gli altri, ricambiando così la natura per avermi generato: quale dono più grande, infatti, avrebbe potuto farmi? Ha donato me solo a tutti gli altri, e tutti gli altri a me solo. Non sarò né un tirchio né uno spendaccione, farò conto di non possedere niente di più di quanto avrò opportunamente donato, e i beni che dispenserò non li giudicherò dal numero o dal peso ma in base alla mia stima per chi li riceverà; non riterrò mai troppo grande il dono che farò ad una persona degna. In ogni mia azione non seguirò l'opinione degli altri ma soltanto la mia coscienza, e anche se ne sarò consapevole io solo mi comporterò come se agissi al cospetto del mondo. Nel mangiare e nel bere perseguirò l'unico scopo di soddisfare i miei bisogni naturali, non quello di riempirmi e di svuotarmi lo stomaco; sarò amabile con gli amici, mite e indulgente con i nemici, e quando qualcuno starà per chiedermi qualcosa di onesto lo preverrò, per non metterlo nelle condizioni di dovermi pregare. Conoscerò come mia patria il mondo, gli dèi come mia guida, sempre al di sopra e intorno a me, censori d'ogni mio gesto e d'ogni mia parola, e quando la natura vorrà riprendersi il mio soffio vitale, anche armando la mano alla ragione, me ne andrò via di qui, testimoniando di avere sempre amato la retta coscienza e i nobili propositi, di non avere mai diminuito la libertà di alcuno, e tanto meno la mia». Chi si prefiggerà tutto questo, e si sforzerà di metterlo in atto con viva determinazione, salirà verso il regno degli dèi, e, quand'anche fallisse la meta, si potrà dire di lui: è tuttavia caduto nell'osare una nobile impresa. Ma voi, col pretesto che odiate la virtù e coloro che la coltivano, non fate niente d'insolito, niente che si levi al di sopra dell'ordinario, simili agli occhi malati che temono la luce del sole o agli animali notturni che aborrono lo splendore del giorno e al primo chiarore dell'alba, abbagliati e storditi, corrono disordinatamente verso le loro tane o s'infilano in qualche fessura, tanto sono spaventati dalla luce. Ringhiate pure, esercitate la vostra sterile lingua nel calunniare le persone dabbene, spalancate la bocca, mordete: vi spezzerete i denti, senza poterle nemmeno scalfire. XXI. «Come mai quel tale», così dirà ancora qualcuno, «si professa filosofo e vive da riccone? Perché proclama che si deve disprezzare il denaro e gli altri beni materiali, e tuttavia non se ne disfa? Persino la vita detesta, ma intanto non s'è ancora ammazzato. E perché va gridando ai quattro venti che non bisogna curarsi della salute e poi invece le mostra ogni riguardo e la vuole persino eccellente? Definisce l'esilio un vuoto nome, sostiene che non è una disgrazia cambiare nazione, ma fa di tutto per invecchiare nel suo paesello. E mentre dichiara, da un lato, che non gl'importa un fico se campa un solo giorno oppure un secolo, dall'altro, se non gli piglia un colpo, si allunga l'esistenza più che può, mantenendosi arzillo e beato magari sino a cent'anni». Ora, è vero che il filosofo dice che tutte queste cose si debbono disprezzare, ma non nel senso che siano da rifiutarsi a priori, bensì nel senso che, pur possedendole, non bisogna lasciarsi influenzare da loro; egli, insomma, non le respinge, ma, sia che vengano, sia che se ne vadano, le guarda con distacco. D'altronde è proprio qui che la fortuna può mettere più al sicuro i propri doni, presso uno da cui sa che potrà riprenderseli senza riceverne querele e maledizioni. Marco Catone, al tempo in cui tesseva le lodi di Curio e di Coruncanio, e di quando avere poche lamine d'argento era un crimine punito dai censori, possedeva personalmente una ricchezza di quattro milioni di sesterzi, inferiore senz'altro a quella di Crasso, ma superiore a quella di Catone il Censore. Per fare un paragone, aveva distanziato il suo bisnonno più di q uanto Crasso non distanziasse lui, e se gli fossero piovute ancora altre ricchezze non le avrebbe rifiutate. Il saggio, infatti, non si reputa indegno dei doni della fortuna e quanto alle ricchezze accetta di averle ma non le ama, esse non entrano nel suo animo, gli stanno solo intorno: le tiene, sì, ma per dominarle, e perché possano fornire una più ricca materia ed un più vasto campo alla sua virtù. XXII. è chiaro, infatti, che il saggio ha maggiori e più valide possibilità di sperimentare il suo animo nella ricchezza che non nella povertà, giacché in questa si esercita un solo tipo di virtù, la sopportazione, mentre nella ricchezza possono esplicarsi, in una sfera più ampia, anche altre qualità, come la temperanza, la liberalità, l'accortezza, la capacità d'imporsi delle regole, la magnificenza. Il saggio non si duole né si disprezza se è di bassa statura, ma al tempo stesso ritiene preferibile, anche per sé, essere alti; così, se è magro o privo di un occhio non dà importanza alla cosa, e tuttavia vorrebbe un corpo robusto, sempre però tenendo presente ch'esistono doti molto più importanti. Allo stesso modo accetterà una cattiva salute, ma non per questo dovrà negarsi il desiderio di stare in perfetta forma. Certe cose, infatti, anche se in rapporto all'insieme hanno scarso valore e possono venire a mancare senza che il bene principale vada in rovina, sono sempre un quid in più, rispetto a quella gioia duratura che nasce dalla virtù: i beni materiali rasserenano il saggio e gli procurano la stessa sensazione che un venticello leggero e propizio arreca al marinaio durante la navigazione, o quella che possono darci una bella giornata o un luogo soleggiato nel freddo e rigido inverno. E poi nessuno dei saggi (parlo dei nostri, che stimano quale unico bene la virtù) nega che anche le cose che chiamiamo «indifferenti» abbiano in sé dei pregi, in una loro scala di valori, in base alla quale da alcune si ricava poco onore, da altre, invece, molto. Perciò non sbaglierai se porrai le ricchezze fra le cose da preferire. «E perché allora mi deridi», obietterai, «visto che tu le tieni nella stessa considerazione in cui le tengo io?» Non è la stessa, e te lo dimostro subito: a me, se se ne andranno, non porteranno via niente, tu, invece, se ti lasceranno, resterai sbalordito, quasiché fossi stato privato di te stesso. Le ricchezze per me occupano solo un posto, nella vita, uno qualunque, per te quello più alto; io le possiedo, tu ne sei posseduto. XXIII. Smettila, dunque, di negare ai filosofi il diritto di possedere denaro: nessuno ha condannato la saggezza alla povertà, anche il filosofo può avere grandi ricchezze, quando queste non siano state rubate, non grondino di sangue altrui e il loro acquisto non abbia fatto torto ad alcuno, non provengano da ignobili speculazioni e le uscite siano tanto oneste quanto lo sono state le entrate, sì che nessuno, tranne gl'invidiosi, abbia motivo di criticare. Ammassane perciò quante ne vuoi: sono pulite. Sono pulite perché, per quante ognuno voglia averne per sé, non c'è fra esse un so lo granello che possa dirsi suo. E perché poi il filosofo dovrebbe allontanare da sé la benevolenza della fortuna? Né egli si farà vanto o arrossirà di un patrimonio acquisito onestamente; avrà un solo motivo per gloriarsene, se, spalancata la sua casa e chiamata a raccolta tutta la città davanti alle sue ricchezze, potrà dire senza timore: «Se qualcuno vi riconosce qualcosa di suo, lo prenda pure». O uomo degno e giustamente ricco chi, dopo tale invito, manterrà intatti i suoi averi! Intendo dire: se il saggio potrà sottoporsi ad un simile esame da parte di tutto il popolo con la coscienza tranquilla e sicura, se nessuno troverà presso di lui un solo spillo su cui mettere le mani, allora egli sarà ricco, orgogliosamente e davanti agli occhi di tutti. Il saggio non farà mai passare dalla sua soglia un solo soldo di provenienza sospetta, ma al tempo stesso non rifiuterà né scaccerà ricchezze anche cospicue, se sono dono della fortuna o frutto della virtù. E per quale motivo dovrebbe negare loro un posto onorevole? Ben vengano, e siano accolte in qualità di ospiti. Il saggio non se ne vanterà né le nasconderà (nel primo caso si comporterebbe come uno sciocco, nel secondo come un timido e un pusillanime, che si tiene stretti al seno i suoi averi quasi che fossero un gran bene), e neppure, ripeto, le caccerà di casa. Potrebbe forse dir loro: «Voi siete inutili», o: «Io non so servirmi delle ricchezze»? Come, pur potendo andare a piedi, preferisce viaggiare sopra un carro, così, se da povero potrà diventare ricco, non si tirerà indietro; ma si terrà le sue ricchezze quali beni leggeri e pronti sempre a volarsene via, né lascerà che esse costituiscano un peso, per se stesso o per gli altri. Donerà (ma non drizzate le orecchie e non aprite la vostra borsa), donerà ai buoni, o a quelli che potranno diventarlo, scegliendo i più degni con la massima oculatezza e ricordandosi che si deve rendere conto sia delle entrate che delle uscite; donerà per motivi onesti e plausibili, perché un dono sbagliato è un inutile spreco, e avrà la borsa pronta e disponibile, ma non bucata, dalla quale esca molto, e niente scivoli via. XXIV. Donare non è facile, e chi pensa che lo sia sbaglia di grosso: quel gesto, infatti, presenta molte difficoltà, almeno quando lo si compia non a casaccio o impulsivamente, bensì a proposito e col dovuto discernimento. Ad uno doneremo per farcelo amico, ad un altro per restituirgli, un favore, ad un altro ancora per soccorrerlo; a questo per compassione, a quello perché merita di non perdersi tra i morsi della fame; ad alcuni invece non daremo nulla, anche se si trovano in ristrettezze, per il semplice fatto che se li aiutassimo non muoverebbero un dito per tirarsene fuori da sé; a certuni ci limiteremo ad offrire, ad altri, addirittura, imporremo di accettare. Non si può agire con disinvoltura in questa faccenda, perché quello di donare è il nostro migliore investimento. «Tu, allora, doni per ricevere?», mi obietterà qualcuno. No, dono per non perdere. Il beneficio vada a persone meritevoli e sicure, a cui poi non debba essere rinfacciato, ma da cui possa essere ricambiato; sia depositato come un tesoro seppellito a grande profondità, che non viene dissotterrato se non in caso di necessità. Ma poi, anche la casa di un uomo ricco quante possibilità offre, essa s tessa, di fare del bene! Perché, infatti, essere liberali soltanto con persone di ceto elevato? La natura ci comanda di giovare agli uomini, siano essi liberi o schiavi, nobili o affrancati, né importa se la loro libertà sia riconosciuta dalla legge o ottenuta per ragioni di amicizia: dovunque c'è un uomo, lì c'è l'occasione per fare del bene. Non occorre uscire di casa per elargire denaro: anche dentro le mura domestiche si può esercitare la liberalità, la quale è chiamata così non perché sia indirizzata ad individui liberi ma perché libero è l'animo di colui che la pratica. E quella del saggio non si volge mai verso gl'immeritevoli o i malvagi, né mai si sente tanto stanca da non tornare a profondere, come se avesse ancora la borsa piena, ogni volta che incontra una persona degna. Non fraintendete, quindi, ciò che dicono i filosofi, le loro sono parole oneste, forti e appassionate. E soprattutto vi sia ben chiaro questo: altro è aspirare alla saggezza, altro il possederla. Nel primo caso diremo: «Io parlo bene, ma mi dibatto ancora in mezzo a molti difetti: non giudicatemi, dunque, in base alla regola che mi sono imposto, perché mi trovo solo sulla strada, verso quel nobilissimo modello a cui tendo con tutte le mie forze. Se sarò andato avanti in questo processo tanto quanto mi sono proposto, allora sì potrete pretendere che i fatti corrispondano alle mie parole». Se invece avremo raggiunto il culmine di questo nostro bene, ci comporteremo diversamente, e diremo: «Innanzitutto non permettetevi di giudicare chi è migliore di voi: il fatto che io dispiaccia ai disonesti è già una prova della mia onestà. Se poi volete che vi dia una spiegazione, che non nego mai a nessuno, ascoltate bene ciò che sto per dirvi e quanto stimo le cose. Io non sostengo che le ricchezze siano un bene, per il semplice motivo che se lo fossero renderebbero buoni gli uomini, e perché mi rifiuto di definire bene ciò che si trova anche in mano di persone cattive. Dico però che il possesso delle ricchezze è legittimo, perché esse sono utili e apportano alla vita grandi vantaggi». XXV. «Visto, dunque, che siamo tutti d'accordo sul fatto che le ricchezze si debbano possedere, sentite perché io non le considero un bene e perché nei loro confronti mi comporto diversamente da voi. Mettetemi in una casa straricca, dove anche gli oggetti d'uso comune siano d'oro e d'argento: non monterò in superbia per codesta roba, che, pur essendo in casa mia, mi è tuttavia estranea. Da lì portatemi sul ponte Sublicio e gettatemi in mezzo agli straccioni: non per questo mi farò schifo, per il fatto, cioè, di starmene seduto fra coloro che stendono la mano per l'elemosina. Che importa, infatti, di fronte alla morte, poiché tutti dobbiamo morire, se mi manca un pezzo di pane? Ciò però non m'impedisce di preferire ad un ponte una ricca casa. Mettetemi in mezzo a mobili lussuosi e fra gli agi più raffinati: non mi riterrò più felice perché ho un cuscino morbido o faccio distendere i miei convitati su tessuti di porpora. Cambiate ora il mio letto: non sarò certo più misero perché il corpo stanco riposa su un mucchio di fieno o su un pagliericcio da circo che perde l'imbottitura dai rattoppi della vecchia tela. Nondimeno preferisco esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con indosso la toga pretesta piuttosto che con le spalle scoperte. Così, se i giorni passassero secondo i miei desideri, apportandomi sempre nuove soddisfazioni e riconoscimenti, non per questo mi compiacerò di me stesso. Rovesciate adesso la situazione e da un tempo così benevolo trasportatemi in un altro, in cui il mio animo sia circondato e tormentato da lutti e da ogni genere di avversità, e non vi sia un momento di tregua ai miei lamenti: ebbene, anche nella più nera miseria non mi dirò infelice, non maledirò nessuno dei miei giorni, perché ho già preso le mie precauzioni, ho già disposto il mio animo in modo che non vi siano giornate nere per me. Con ciò preferisco moderare le mie gioie piuttosto che dover placare i miei dolori». Il grande Socrate dirà: «Immaginate ch'io abbia sottomesso il mondo intero, che il raffinato carro di Libero mi trasporti in trionfo da Oriente sino a Tebe e che ogni re ricorra al mio giudizio: ebbene, soprattutto allora continuerei a ritenermi un uomo, quando da ogni parte mi salutassero come un dio. Ribaltate ora le cose e da una tale altezza precipitatemi nel più profondo abisso: mettetemi sopra una lettiga, come un prigioniero, per abbellire il trionfo di un vincitore superbo e fiero: non mi sentirò più umile dietro un carro altrui di quanto non lo fossi quando stavo su l mio. Con ciò preferisco vincere piuttosto che essere catturato. Disprezzerò l'intero regno della fortuna, ma da lì, se mi sarà dato di scegliere, prenderò il meglio. Qualunque cosa mi toccherà sarà benvenuta per me, ma preferisco trovarmi in situazioni favorevoli e più liete, o che meno possano molestarmi nell'affrontarle. Non ci sono virtù che non comportino uno sforzo, ma alcune hanno bisogno di sprone, altre di freno. Come il corpo se va lungo un pendio dev'essere trattenuto e lungo un'erta, invece, sollecitato, così è delle virtù, alcune vanno in discesa, altre in salita. Chi potrebbe infatti dubitare che salgano, si sforzino e lottino, la pazienza, la fortezza, la perseveranza e tutte le altre virtù che si oppongono alle avversità e dominano la fortuna? E d'altra parte non è altrettanto evidente che la liberalità, la moderazione e la bontà procedono come in discesa? In queste freniamo l'animo affinché non scivoli, in quelle l'esortiamo e l'incitiamo energicamente. Quindi, per la povertà ci serviremo di quelle virtù che essendo più forti sanno combattere, per la ricchezza di quelle più accorte, che camminano a passi brevi, sorreggendo il loro carico. Stando così le cose, preferisco avere quelle virtù che si possono praticare con maggiore tranquillità, che non quelle il cui esercizio costa sudore e sangue. In definitiva - conclude il saggio - non è ch'io viva diversamente da come parlo, è che voi fraintendete quello che dico, perché alle vostre orecchie arriva solo il suono delle parole, ma quanto al loro significato non vi date neppure la pena di cercarlo». XXVI. «Ma allora», mi obietterete, «che differenza c'è fra uno stolto ed un sapiente, se sia l'uno che l'altro aspirano al possesso di beni materiali?» Una differenza enorme: il sapiente, infatti, tiene le ricchezze presso di sé come sue schiave, lo stolto, invece, come sue padrone; al saggio esse non dànno praticamente nulla, mentre a voi permettono tutto; voi vi ci attaccate e vi ci abituate come se qualcuno ve ne avesse assicurato il possesso in eterno, il saggio soprattutto allora pensa alla povertà, quando si trova in mezzo alla ricchezza. Nessun generale confida tanto nella pace da non prepararsi alla guerra, quando questa, se non ancora in atto, è tuttavia nell'aria; voi, invece, vi fate arroganti perché avete una bella casa, come se questa non potesse mai prendere fuoco o crollare, e restate abbagliati di fronte alle ricchezze come se queste fossero esenti da ogni pericolo e al di sopra della stessa fortuna, quasi che questa non avesse forze bastanti a distruggerle. E giocate con loro, oziosamente, incuranti dei rischi, come certi barbari quando, assediati dai nemici, ignari delle macchine da guerra, stanno lì a contemplare, senza muovere un dito, gli sforzi degli assedianti, non comprendendo a che servano quelle apparecchiature che vedono innalzarsi da lontano. Così capita a voi: marcite in mezzo ai vostri averi e non pensate agli accidenti numerosi e improvvisi che vi sovrastano, pronti a rubarvi quel prezioso bottino. Il saggio, invece, potrà perdere tutte le ricchezze, ma i beni suoi gli rimarranno: egli sa vivere, infatti, solo di ciò che possiede al momento, con animo lieto e senza alcuna preoccupazione del suo futuro. «Non c'è in me volontà più decisa», direbbe il grande Socrate (e con lui chiunque abbia un tale privilegio e un tale potere di fronte alle cose umane), «che quella di non piegare alle vostre opinioni alcun atto della mia vita. Assediatemi pure da ogni parte con le solite punzecchiature: per me non sono che vagiti di poveri neonati» . Così parla l'uomo saggio, il cui animo è privo di vizi e si sente spinto a rimproverare gli altri non per odio ma perché vuole correggerli. E aggiunge: «I vostri apprezzamenti mi toccano non per me ma per voi stessi, perché l'astio e gl'insulti che lanciate alla virtù vi tolgono ogni possibilità di conseguire qualcosa di buono. Voi non mi fate alcuna offesa, così come non ledono gli dèi coloro che ne abbattono gli altari. E però, anche se non possono nuocere, il cattivo proposito e il disegno perverso sono comunque visibili. Ed io sopporto i vostri vaneggiamenti come Giove Ottimo Massimo le fantasie dei poeti, che ora lo raffigurano con le ali, ora lo descrivono come un adultero che passa le notti fuori di casa, ora lo dicono crudele verso gli dèi, ingiusto con gli uomini, sequestratore di poveri mortali e magari di parenti, o addirittura parricida e usurpatore del regno paterno; fantasie che, col far credere un simile comportamento da parte degli dèi, hanno spento negli uomini il senso del peccato. Ora, per quanto i vostri deliri non mi tocchino minimamente, nel vostro interesse vi dico: abbiate rispetto per la virtù, credete a chi, dopo averla seguita a lungo, proclama di andar dietro a qualcosa di grande e che di giorno in giorno cresce sempre di più; veneratela, come si venerano gli dèi, unitamente a coloro che la professano quali suoi sacerdoti, e ogni volta che sentite nominare i testi sacri favete linguis. Con questa espressione non s'intende - come credono i più - domandare un favore, ma solo imporre il silenzio, affinché la cerimonia sacra possa compiersi secondo il rituale e senza che alcuna voce profana la disturbi; questo vale soprattutto per voi, perché ascoltiate attenti e a bocca chiusa tutto ciò che l'oracolo in quell'occasione proclamerà. Quando uno sconosciuto va gridando menzogne dietro comando, agitando un sistro, quando un imbroglione, esperto nel ferirsi le membra, s'insanguina con mano accorta e leggera le braccia e le spalle, quando una donna, strisciando sulle ginocchia lungo la via, urla come un'ossessa, oppure un vecchio, coperto di lino e coronato di alloro, e con in mano una lucerna in pieno giorno, grida che qualche dio è adirato con noi, allora, sì, voi correte a frotte ad ascoltare, e, passando di stupore in stupore, giurate che quella tale persona è ispirata dagli dèi». XXVII. Guardate ora Socrate, che da quella sua prigione, purificata dalla sua presenza e resa più onorevole di qualsiasi senato, proclama: «Quale pazzia, quale impulso, ostile agli uomini e agli dèi, vi spinge a calunniare la virtù e a profanare le cose sacre con discorsi malevoli? Se ne siete capaci, lodate i buoni, altrimenti smettetela. Se poi vi piace esercitare codesta vostra vergognosa licenza, azzuffatevi fra di voi. Quando scagliate contro il cielo le vostre folli bestemmie, più che commettere un sacrilegio, perdete il vostro tempo. Una volta fui oggetto di scherno da parte di Aristofane, e tutta quella banda di poeti comici mi rovesciò addosso i suoi lazzi velenosi; ma la mia virtù ha ricevuto più luce proprio in grazia di quelle frecciate che pretendevano di colpirla, giacché l'essere messa alla prova davanti agli occhi di tutti lungi dal danneggiarla le ha giovato, e nessuno ne ha compreso la grandezza più di quelli che, attaccandola, ne hanno sentito la forza: chi, infatti, conosce la durezza della selce meglio dei tagliapietre che la lavorano? Io sono come una roccia piantata in una secca, che i marosi flagellano incessantemente da tutte le parti senza però riuscire a smuoverla o ad intaccarla coi loro assalti continui nel lungo corso dei secoli. Saltatemi pure addosso, gettate su di me tutta la vostra furia: vi vincerò sopportandovi. Tutto ciò che si scaglia contro ostacoli saldi e inespugnabili fa uso della forza a proprio danno: cercate dunque un bersaglio facile e malleabile per configgervi le vostre frecce. Vi piace ficcare il naso nei difetti altrui e sputar sentenze su tutti: "Perché questo filosofo ha una casa tanto grande? Perché quest'altro offre pranzi così sontuosi?" Osservate i foruncoli degli altri, mentre voi siete tutta una piaga. è come se uno, divorato da una terribile scabbia, deridesse i nei o le verruche che si trovano su uno splendido corpo. Rinfacciate a Platone di aver cercato denaro, ad Aristotele di averlo accettato, a Democrito di averlo trascurato, ad Epicuro di averlo sperperato; a me rinfacciate pure il comportamento di Alcibiade e di Fedro. Ma il colmo della vostra felicità sarebbe l'imitare, se mai fosse possibile, i miei vizi. Perché, piuttosto, non badate ai vostri mali, che vi affollano da tutte le parti, quali infierendo dall'esterno, quali bruciandovi dentro, fin nel profondo? La condizione umana - anche se a voi risulta poco chiaro il vostro stato - non è così durevole da lasciarvi tempo sufficiente per agitare la lingua, insolentendo i buoni. XXVIII. Ma tutto questo voi non lo capite, e mostrate un atteggiamento che contrasta con la vostra reale situazione, simili a quella gente che se la spassa nel circo o nel teatro e non sa che frattanto in casa sua è accaduta una disgra zia. Ma io, che guardo le cose dall'alto, vedo quali tempeste vi sovrastano, pronte a vomitare su di voi il loro cumulo oscuro, o, fattesi ancora più vicine, stanno ormai per travolgervi con tutti i vostri averi. Ma che dico? Già in questo momento, per poco che lo sentiate, un turbine fa girare le vostre anime, che cercano di scappare e tuttavia continuano a desiderare quegli stessi vani piaceri, ed ora le solleva verso il cielo, ora le scaraventa nell'abisso». Note: CAPITOLO I. Gallione è Annèo Novato, il fratello maggiore di Seneca, così chiamato dal nome del retore Giunio Gallione, da cui venne adottato. Stazio lo definisce l'uomo più pacifico e più paziente del mondo. Fu proconsole d'Acaia dal 51 al 53 (come si legge in un'iscrizione di Delfi); Sotto di lui, a Corinto, i Giudei si sollevarono contro S. Paolo e lo trascinarono in tribunale. Gallione lo difese, dicendo: «Se avesse commesso qualche ingiustizia o qualche grave misfatto, o Giudei, potrei anche ascoltarvi, ma trattandosi di questioni di parole, di nome e della vostra Legge, pensateci voi: io non voglio essere giudice di tali cose». Fu fatto assassinare da Nerone nel 65. CAPITOLO II. La clamide potrebbe qui essere riferita ai semplici soldati, la corona ai trionfatori. CAPITOLO III. La mancanza di ammirazione di cui parla Seneca è la athaumastia della fiìosofia stoica. Oltre a Democrico e ad Eraclito, ne fa cenno Orazio in Epistola I, 6,1: Nihil admirari prope res est una, Numici,/solaque quae possit facere et servare beatum: «Non stupirsi di niente è forse il solo / mezzo, Numicio, a renderci felici». CAPTOLO V. Anche nel De ira (1,3,6) Seneca esprime lo stesso concetto: Muta animalia humanis affectibus carent; habent autem similes illis quosdam impulsus: gli animali, privi della parola, difettano anche dei sentimenti, che sono propri degli esseri umani, ma hanno certi istinti che gli somigliano. CAPITOLO V. Il tipo di piacere che qui Seneca combatte, più che di Epicuro, è quello di Aristippo, filosofo di Cirene, per il quale il piacere e l'assenza di bisogni dovevano accompagnarsi ad una grande serenità di spirito. Di lui sappiamo che fu della cerchia di Socrate, assimilato ai sofisti perché dava lezioni dietro ricompensa. Ne parla Platone, nel Teeteto e nel Filebo, sottolineandone l'arguzia e la raffinatezza, nonché Senofonte, nei Memorabili, e Orazio, in Satira 11,3,100 e in Epistole 1,1,18; 17,14,17,23: «Aristippo, pur aspirando al meglio si adattava». (è un po' quello che Seneca dice del saggio). CAPITOLO VII. è quanto dice Cicerone di Epicuro: Clamat Epicurus. non posse icunde vivi nisi sapienter honeste iusteque vivatur, nec sapienter honeste iuste nisi iucunde (De finibus, 1,18). CAPITOLO VII. Cicerone chiama il piacere invidiosum, infame, suspectum anche solo nel nome (De finibus, 111,4). CAPITOLO IX. Per gli epicurei il ventre era la sede o il punto di diramazione di tutti i piaceri. CAPITOLO X. Arroganza e superbia erano i vizi attribuiti agli epicurei. CAPITOLO XI. Nomentano è forse lo stesso personaggio di cui parla Orazio in Satira 1,1,102, e 1,8,11. Apicio fu un famoso esperto d'arte culinaria, noto per la sua ghiottoneria, vissuto sotto Tiberio. Lo stesso Seneca narra che si uccise perché, avendo dissipato in gozzoviglie il suo patrimonio, pur rimanendogliene ancora gran parte, fu preso dal timore di morire di fame. Scrisse un trattato, De re coquinaria, ricettario in 10 libri, una specie di «Artusi». Celebre la «salsa A», di cui si ignorano gl'ingredienti. CAPITOLO XIII. Il tamburello era il simbolo dei Galli, sacerdoti di Cibele: perlopiù evirati, indossavano abiti femminili. CAPITOLO XIV. La citazione è di Virgilio, qui riprodotta non esattamente. CAPITOLO XV. Per la dedizione del saggio verso gli amici si veda Orazio, Carmina IV, 9,51 seguenti: non ille pro caris amicis/aut patria timidus perire. CAPITOLO XV. «Segui Dio» è un'antica massima stoica. CAPITOLO XVII. Delle ricchezze di Seneca parlano anche Tacito (Annali XIII, 42) e Dione Cassio (LXI, 10). CAPITOLO XVIII. Rutilio Rufo, condannato all'esilio, richiamato in patria da Silla, rifiutò sdegnosamente di ritornarvi. Demetrio è un filosofo cinico, citato spesso da Seneca. CAPITOLO XIX. Diodoro era un filosofo epicureo di cui non abbiamo notizie. «Sono vissuto.»: sono le parole pronunciate da Didone in punto di morte (Eneide, IV, 653); il verso è citato anche nel De beneficiis (V, 17) e nelle Epistulae ad Lucilium (VII,9). CAPITOLO XX. Gli stoici ammettevano il suicidio. La citazione è di Ovidio (Metamorfosi, II; 328). CAPITOLO XXI. Curio Dentato e Tiberio Coruncanio, l'uno vincitore dei Sanniti, dei Sabini e di Pirro, l'altro il primo pontefice di origine plebea, erano due esempi di frugalità e di virtù patrie. Di Catone il Censore (243-149 a.C.) sono note l'integrità morale e la lotta contro l'introduzione in Roma dei molli costumi dei Greci. Era il bisnonno di Catone l'Uticense. La notizia secondo cui era una colpa possedere poche lamine d'argento si trova anche in Ovidio (Metamorfosi, 1,85: et levis argenti crimen erat). CAPITOLO XXIV. Il tema delle donazioni è trattato diffusamente nel De Beneficiis. Anche Tacito parla della generosità di Seneca, e Giovenale ne sottolinea la delicatezza: Nemo petit modicis quae mittebantur amicis a Seneca: «Nessuno dovette mai chiedere a Seneca ciò ch'egli donava agli amici di modeste condizioni», nel senso che donava senza darne notizia agli altri (come accenna anche nel De beneficiis). CAPITOLO XXV. Il ponte Sublicio, il più antico di Roma, era pieno di mendicanti, come apprendiamo anche da Giovenale che nella satira quinta (V. 6 seguenti) ci presenta i mendicanti seduti sopra una stuoia lungo il parapetto del ponte, nell'atto di stendere la mano ai passanti. CAPITOLO XXVI. Imperat aut servit collecta pecunia cuique: così Orazio in Epistola 1,10,47. CAPITOLO XXVI. Allusione, forse, a Stilbone di Megara, a cui Seneca, nel De constantia sapientis, V, 6 attribuisce le famose parole: Omnia mea mecum porto: «Tutto quello che ho lo porto con me». CAPITOLO XXVI. Allusione ai miti di Leda e di Europa, amate e possedute da Zeus sotto le spoglie di un cigno e di un toro, nonché a quello di Ganimede, che il dio rapì nelle vesti di un'aquila. CAPITOLO XXVI. L'espressione favete linguis si trova anche in Orazio, Carmina III,1,2. CAPITOLO XXVII. Si riferisce alle Nuvole di Aristofane (450-385), il più grande commediografo dell'antichità, in cui Socrate viene preso in giro. Anche Eupoli derise il filosofo. CAPITOLO XXVII. Le notizie sull'atteggiamento di Platone, Aristotele, Democrico ed Epicuro di fronte al denaro, si trovano in Diogene Laerzio. Quanto a Democrico ne parla Seneca stesso nel De providentia, VI,2. CAPITOLO XXVIII. Allude all'amore fra giovinetti, da cui, stando a Dione, non sarebbe stato immune nemmeno Seneca, che anche in questo, anzi, avrebbe fatto da maestro a Nerone.

Source: http://coral.ufsm.br/gpforma/2senafe/PDF/b60.pdf

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Still on the subject of bird flu,does anyone remember thefurore at the end of last yearwhen the virus first reachedFor the past few days I have had flu. Not bird flu. Just the common or garden varietywhich kills, on average, 12,500 people each year in Britain alone. I don’t suppose the statistics have yet been gathered – but on past form it is likely thattens of thousands of Europeans

Focus118.rtf

Jahreshauptversammlung -Wie bei der Vorstandssitzung vor dem Perseiden-Feuer beschlossen, wird die Mitgliederversammlung erst am Nationalfeiertag und nicht bei der Linzer Klangwolke stattfinden, da die Vorarbeiten angesichts erheblicher Überstunden unseres Mitgliederbetreuers noch nicht weit gediehen sind. Zeitpunkt ist 17 Uhr, der genaue Ort wird erst nach Rücksprache mit den Projektgruppe

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