Tratto dal quotidiano ‘L’Ora’: 22/23 gennaio 1962
COME IO, MEDICO, DIVENTAI UN MAFIOSO
Anni fa, in una clamorosa operazione di polizia, venne arrestato un medico palermitano –Interrogato per ore e ore vuotò il sacco – Questo che pubblichiamo e` il verbale delle sue dichiarazioni
Questa e` la storia di un medico palermitano che diventò mafioso all’età di 35 anni. E mostra come la mafia si insinua negli ambienti professionali e come talvolta riesce a invischiarli. Era l’estate del 1937. Nelle campagne di Castelvetrano, di Gibellina, di Santa Ninfa imperversava un pericolosissimo criminale, certo Ponzio. Lo eliminarono. La sua soppressione dette il via ad un memorabile operazione di polizia, nel corso della quale fu tratto in arresto anche il dr. Melchiorre Allegra, medico stimato, proprietario di una casa di cura, ufficiale medico nella riserva e grosso esponente della mafia. Il 23 giugno il dr. Merchiorre Allegra (Ione, per gli amici) vuotò il sacco. Parlò per ore ed ore, e ciò che egli disse fu trascritto dal Maresciallo Ciotta in un voluminoso verbale di ventisei fogli dattiloscritti. L’interrogatorio del medico mafioso avvenne prima alla Stazione dei Carabinieri di Castelvetrano, (Maresciallo Maggiore Marco Sardo, Brigadiere Gioacchino Gagliano) e successivamente nell’ufficio del Settore di P.S. di Alcamo. In quei ventisei fogli dattiloscritti, ingialliti dai ventiquattro anni passati sopra di loro, c’e` la documentata conferma di una tragica realtà che continua ancora oggi, giorno per giorno, nell’interminabile catena di delitti che insanguinano questa terra. C’e` tutta la mafia, con le sue leggi dell’onore e dell’omertà, con i suoi tribunali, con le sue esecuzioni, con le spregiudicate operazioni economiche. Questi ventisei fogli dattiloscritti –che qui rendiamo noti per la prima volta quasi integralmente – narrano di uomini che una volta contarono molto ed oggi sono morti; altri che sono vivi;di altri ancora che oggi contano assai più di quelli di ieri. L’autore della deposizione, il dr. Merchiorre Allegra, e` morto qualche anno fa a Castevetrano: di lui si dice che fece bene (spesso) e del male (talvolta). In vita odiò (a modo suo) la mafia, ma fu mafioso. Potremmo dire che sia stata creata per lui – e per tanti come lui – la triste nenia che cantano nelle notti calde d’estate I carrettieri di Partinico e di Alcamo mentre vanno in fila indiana sullo stradale bianco: “ Lu sceccu zoppu si godi la via, l’omu ‘spertu ‘a vicaria”. La deposizione del dottor Allegra –che nelle pagine successive diventerà sempre più incalzante e drammatica – inizia con la descrizione della cerimonia d’iniziazione: una specie di rito da “Beati Paoli” che ha del romanzesco e che, tuttora in uso in qualche paese di provincia, e` forse ormai superato laddove la mafia ha assunto forme moderne. Ed ecco ciò che il dottor Allegra disse agli inquirenti che lo interrogavano: L’anno millenovecentotrentasette addi` 23 luglio, in Alcamo, nell’ufficio del settore di P.S. Innanzi a noi sottoscritti ufficiali di polizia giudiziaria e` presente il dr. Allegra Melchiorre fu G. Battista e fu Doria Giuseppa, nato a Gibellina il 21 luglio 1881, domiciliato a Castelvetrano, il quale interrogato, risponde:
Da molto tempo avevano intenzione di rivolgermi alle competenti autorità di polizia, per confidare tutto ciò che dirò appresso, allo scopo di chiarire una buona volta la mia situazione morale nei confronti delle autorità stesse, che purtroppo per molto tempo, non sempre hanno avuto di me un esatto concetto, e precisamente quello che io sono così come mi sento, un galantuomo. Nel 1926, non saprei precisare meglio l’epoca, io ero sotto le armi ufficiale medico nel reparto malattie infettive dello ospedale militare di Palermo. Nel mio reparto, ebbi degente fra gli altri ammalati da Villabate un tale di cognome D’Agate proveniente da un reparto di chirurgia, dove era stato operato per ascesso al ginocchio. Era stato trasferito al reparto malattie infettive, perché affetto da una erisipola secondaria, e siccome non era in condizioni gravi, io durante le medicature, mi divertivo ad interrogarlo sulle cause della sua malattia. Egli stesso mi confidò che l’ascesso era stato procurato da un iniezione di olio di trementina e tintura di iodio fattasi praticare da un compagno entro la capsula articolare del ginocchio, sul piroscafo, mentre era di ritorno dall’Albania. Riuscito a strappare al D’Agate una tale dichiarazione, lo minacciai seriamente di denuncia per autolesione. Frattanto i parenti venivano a visitarlo; fra gli altri uno zio, che come seppi si chiamava Giulio D’Agate, che io conoscevo come persona di riguardo, cioè individuo rispettato e temuto. Questo, saputo dal nipote che io stavo per procedere alla denuncia, cercò di avvicinarmi, e mi rivolse calda preghiera perchè desistessi dalla denuncia minacciata, scongiurandomi di non rovinare il nipote che aveva moglie e figli. Cedetti alle preghiere e assicurai il Giulio D’Agate che avrei taciuto ogni cosa. L’ammalato guarì e venne dimesso dall’ospedale per una licenza di alcuni mesi. Dopo alcuni giorni il signor D’Agate Giulio venne a trovarmi, all’ospedale, per raccomandarmi un altro soldato, di cui non ricordo più il nome, ma che aveva anch’egli un male procurato, che io curai guarendo e facendo dimettere anche con licenza. Durante le degenza di questo secondo cliente, una sera, uscendo dall’ospedale, trovai il signor Giulio D’Agate che, insieme, ad altri sue a me sconosciuti, stava per attendermi. I due mi vennero presentati per il signor Francesco Motisi e il signor Vincenzo di Martino. Tutti e tre mi invitarono ad accompagnarli, previa assicurazione che non dovevano fare altro che comunicarmi qualcosa che sarebbe stata vantaggiosa per me. Non osai rifiutarmi e seguii senz’altro i tre. Mi condussero attraverso via Crispi, in una traversa della medesima ed entrammo in un magazzino di agrumi che mi dissero apparteneva a Motisi. Quando fummo dentro i tre mi tennero un discorso nel quale furono largamente prodighi di lodi in mio favore, dicendomi fra l’altro che ad essi risultava che io ero di ottima famiglia, buono di animo, serio di carattere, che mio ero comportato da persona di riguardo, che avevo quindi meritato di essere trattato bene e che pertanto volevano dimostrarmi la loro stima in modo concreto. Mi spiegarono che essi appartenevano ad una associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori, di cui componenti era chiamati “uomini d’onore”. Questa associazione, essi aggiunsero, che era proprio quella che in Sicilia si chiamava “mafia” da molti conosciuta in maniera, però, assai vaga perchè nessuno, tolti quelli che vi appartenevano, potevano con sicurezza, attestarne l’esistenza. Continuando le spiegazioni mi dissero che le infrazioni alle regole dell’associazione, venivano punite severamente, che non era permesso agli appartenenti la pratica del furto,
ma era consentito l’omicidio per motivi giustificati ritenuti validi dai “capi” il cui benestare era sempre indispensabile per la consumazione dello omicidio stesso. Anche la trasgressione a questa ultima regola veniva punita con severità tanto che nel caso in specie, chi senza permesso consumava un omicidio, moriva a sua volta. L’omicidio ed ogni altra azione, poteva essere consumata sia direttamente, e sia con l’aiuto degli altri che potevano essere richiesti per la bisogna. Circa la struttura amministrativa, mi venne spiegato, che gli organizzati, erano distribuiti in “famiglie”, ciascuna presieduta da un capo, e che generalmente la “famiglia” coincideva con il gruppo dei vari paesi, ma che dove la “famiglia” era molto numerosa, veniva distribuita a sua volta in “decine”, cioè da un gruppo di dieci uomini ciascuno presieduti da un capo di minore importanza, che assumeva il titolo di “capo di decina”. A Palermo, però, e credo anche nelle altre città molto popolose, la “famiglia” era l’unione degli affiliati di un rione, in seno al quale si verificava anche la distribuzione in “decine”. Circa le relazioni fra le varie provincie, vigeva la regola della indipendenza di una dall’altra, perchè i rapporti venivano mantenuti dai vari “capi di provincia” fra loro, stabilendo così un collegamento sostanziale e non formale che attraverso i capi, legava in tutte le provincie, i gruppi dell’uno e quelli dell’altro. La setta, infatti, a loro dire, aveva ramificazioni potenti, oltre che in Sicilia, in Tunisia, nelle Americhe, in qualche centro del continente, in qualche altro di altre nazioni, come per esempio, Marsiglia. I capi generalmente venivano eletti dai componenti il gruppo che erano destinati a presiedere, e che essi, inoltre nelle decisioni venivano coadiuvati da un “consigliere”, che li sostituiva in caso di assenza, completamente, perchè anche il “consigliere” era abbastanza eminente, se si pensa che il suo parere era indispensabile per il capo quando questi doveva prendere una qualsiasi decisione. A questo punto venni interpellato se accettavo di far parte della loro “associazione”. Io capii che ero già stato messo a parte da troppi segreti, per poter, in caso di rifiuto, uscire vivo da quella riunione, e quindi accettai dichiarandomi addirittura entusiasta della offerta che mi si faceva. Pertanto si diede luogo al “rito”: il signor Di Martino, dietro invito del signor Motisi con uno spillo o ago che fosse, mi punse il polpastrello del detto medio di una mano, facendo uscire una goccia di sangue con la quale venne intrisa una immagine in carta di una santa. Tale immagine sacra, venne infiammata ed io dovetti tenerla in mano mentre ripetevo una formula di giuramento suggerita dagli altri; dissi presso a poco questo: “Giuro di essere fedele a miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, io possa bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere”. Dopo questo ci fu un abbraccio e un bacio generale e quindi il seguito delle istruzioni. Aggiunsero che la “setta” in genere era apolitica, ma che volta per volta, ciascuna “famiglia” in ciascun comune, poteva deliberare di dare appoggio elettorale a quei candidati che possibilmente potevano in seguito ricompensare provocando da parte del governo la maggior protezione possibile. Tale protezione si concretava in varie forme, per esempio, raccomandazioni, allora efficaci presso le autorità giudiziarie di P.S., finanziarie, amministrative, ecc. da cui derivavano molti benefici come: concessione di porto d’armi a pregiudicati, revoche di ammonizioni e di altri provvedimenti, proscioglimenti giudiziari, concessioni di libertà
provvisorie in pendenza di processi, revoche di mandati di cattura, agevolazioni in pratiche amministrative, finanziarie e di ogni genere, concessione di passaporti ed altro. Il Motisi mi avvertì che io ero destinato a fare parte della “famiglia” del rione Pagliarelli di cui era capo suo cugino Ciccio Motisi e di cui egli stesso era consigliere; che per qualunque bisogno poteva rivolgersi ad essi, che il capo della provincia di Palermo era Salvatore Galioto, da Bagheria, inteso il “cavaliere”, che da quell’epoca io, seppi che era latitante e che tale si mantenne per decenni fino a che recentemente venne fermato senza che a carico di lui si potesse giudizialmente procedere essendo intervenute le prescrizioni; a proposito del Galioto, seppi, in seguito, che fra i protettori di costui c’erano i fratelli Calo` da Monreale, abitanti a Rocca. Circa i provvedimenti a carico degli affiliati, in caso di mancanza, ho già riferito quanto mi venne detto, debbo aggiungere che mi venne anche spiegato che la “setta” provvedeva anche e principalmente, a vendicare le eventuali offese che ai “fratelli” venivano fatte dai non appartenenti; faccio osservare che questo era basato sul principio dell’aiuto reciproco, e quindi [ … ] - Impossibile trascrivere il resto della’articolo per le condizioni dell’articolo stesso-
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